Dazi USA, transfer pricing e impatti sulla supply chain: riflessioni operative

News

Il presente contributo si occuperà di passare in rassegna, in primo luogo, le caratteristiche principali dell’imposizione doganale e degli effetti che l’introduzione di dazi può avere sulle supply chain. Successivamente, si procederà a prendere in considerazione più da vicino la realtà dei gruppi multinazionali: sarà dunque l’occasione per condividere alcune riflessioni operative in merito alla gestione degli impatti sui prezzi di trasferimento creati da un inasprimento delle barriere commerciali.

Il contesto economico: sintesi

Dall’elezione di Donald Trump, il contesto economico ha subito vari “scossoni” a seguito degli annunci sui dazi dell’Amministrazione statunitense. Inizialmente, sono state annunciate tariffe del 25% su acciaio e alluminio (operative dal 12 marzo) e sull’intero comparto automobilistico – con effetto dal 3 aprile per i veicoli finiti e dal 3 maggio per i componenti – un nuovo Decreto del Presidente Trump ha ufficializzato l’imposizione di ulteriori misure tariffarie su base bilaterale. Secondo quanto dichiarato, la motivazione alla base di queste iniziative è la carenza di equità nei rapporti commerciali degli Stati Uniti con Paesi terzi, la presenza di squilibri tariffari e ostacoli non doganali, nonché l’adozione di politiche economiche ritenute lesive della sicurezza economica nazionale.

Per far fronte a questa situazione definita come una crisi economico-strategica, l’Amministrazione statunitense aveva inizialmente stabilito una nuova imposta doganale del 10% su tutte le merci in arrivo da Nazioni terze, a partire dal 5 aprile 2025. A partire dal 9 aprile, questo dazio ad valorem sarebbe stato ulteriormente aumentato nei confronti dei Paesi indicati nell’allegato I del provvedimento applicando aliquote differenziate per ciascuno di essi. In particolare, le importazioni dall’Unione Europea avrebbero dovuto subire una tariffa del 20%. I nuovi dazi erano previsti estendersi anche ai beni provenienti da diverse economie, tra cui Cina (34%), Vietnam (46%), Taiwan (32%), Giappone (24%), India (26%), Corea del Sud (25%), Thailandia (36%), Svizzera (31%), Indonesia (32%), Cambogia (49%) e Regno Unito (10%). Le tariffe previste dal Decreto esecutivo del 2 aprile avrebbero dovuto aggiungersi a tutti i dazi, imposte o tributi già esistenti, in funzione della classificazione doganale applicabile – considerando che il regime MFN1 (Most-Favoured-Nation) statunitense prevede un’aliquota media del 3,3%. In parallelo, in reazione alle misure su acciaio e alluminio, l’Unione Europea aveva adottato il  Regolamento di esecuzione UE 2025/612 il 24 marzo 2025, aggiornando il sistema di salvaguardia sulle importazioni statunitensi di acciaio.

Il 9 aprile veniva quindi pubblicato l’EO 14266, il quale modificava l’EO 14257 prevedendo la sospensione – a partire dal 10 aprile e fino al 9 luglio – delle tariffe “reciproche” imposte nei confronti dei Paesi elencati nell’Allegato I dell’EO 14257, a esclusione dei prodotti originari della Repubblica Popolare Cinese, inizialmente sottoposti a un dazio ad valorem del 145% e successivamente ridotto del 115%. Tali mutamenti di direzione sono stati presi dall’Amministrazione Trump alla luce della volontà di molti Paesi di intraprendere specifiche negoziazioni con gli USA al fine di raggiungere un accordo sulle misure annunciate. Alla luce di quanto sopra, a oggi2 resta in vigore il dazio ad valorem del 10% da aggiungere sui dazi che normalmente scontano i prodotti UE importati in America. La tariffa del 10% riguarda tutte le importazioni di merci originarie dei Paesi elencati nell’Allegato I dell’EO 14257, a esclusione della Cina. Inoltre, continuano ad applicarsi le misure tariffarie previste sull’importazione di alluminio, acciaio e loro prodotti derivati, quelle previste per il settore automotive e le relative esenzioni previste dell’EO 14257.

Il 10 aprile la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui, accogliendo con favore l’annuncio del Presidente Trump di sospendere per 90 giorni le tariffe reciproche imposte nei confronti dell’UE (e degli altri Paesi elencati nell’allegato I dell’EO 14257), aveva comunicato a sua volta la decisione dell’esecutivo europeo di sospendere per 90 giorni l’adozione delle contromisure commerciali unionali. Il 14 aprile, in risposta alla decisione dell’amministrazione Trump di reintrodurre e ampliare i dazi sull’acciaio e sull’alluminio (elevati al 25%), la Commissione Europea aveva poi adottato un pacchetto di misure di riequilibrio commerciale con l’obiettivo di compensare il danno a carico dell’industria europea, in particolare del settore siderurgico e metallurgico. Con il Regolamento di esecuzione UE 2025/778 furono poi modificate le misure tariffarie adottate nel 2018 e nel 2020 e introdotte nuove misure tariffarie su altri determinati prodotti statunitensi applicabili a partire dal 15 aprile.

Sempre il 14 aprile, con il Regolamento di esecuzione UE 2025/786, le misure tariffarie che sarebbero dovute scattare il 15 aprile sono state sospese fino al 14 luglio 2025. La sospensione è finalizzata a favorire il negoziato con gli Stati Uniti per una possibile rimozione o attenuazione delle tariffe statunitensi. Tuttavia,  incombe dall’Amministrazione statunitense l’applicazione di dazi al 50% sui prodotti importati dall’Unione Europea a partire dal 1° giugno 2025, nonostante la loro applicazione sia stata sospesa fino al 9 luglio 2025.

In ultimo3, con il proclama presidenziale dello scorso 3 giugno 2025 “Adjusting Imports of Aluminum
and Steel into the United States”, l’Amministrazione americana ha disposto a partire dal 4 giugno il raddoppio dei dazi sulle importazioni di determinati prodotti in acciaio e alluminio, portandoli dal 25% al 50%. Più nel dettaglio la nuova misura si applica4:

  • ai prodotti siderurgici di acciaio e alluminio, compresi quelli derivati, elencati negli Allegati I e II del proclama (in attesa di pubblicazione nel Federal Register);
  • esclusivamente al valore dichiarato del contenuto di acciaio o alluminio presente nell’articolo

importato negli Stati Uniti5.
Per i prodotti derivati di acciaio e di alluminio non classificati nei capitoli 73 e 76, il dazio continua ad applicarsi solo sul valore del contenuto di acciaio e di alluminio. Inoltre, il proclama del 3 giugno 2025 stabilisce che la componente non metallica degli articoli importati debba essere assoggettata alle tariffe reciproche previste dall’Executive Order 14257, attualmente fissate al 10%, introducendo quindi il cumulo tra le 2 misure.

Pertanto, a differenza dei periodi precedenti, dal 4 giugno verrà applicato:

  • un dazio del 50% sul valore del contenuto in acciaio o alluminio; e
  • un dazio del 10% sul valore della componente non metallica dell’articolo.

Gli Stati Uniti sono diventati il secondo mercato del made in Italy, con un export che nel 2024 ha raggiunto circa 67,2 miliardi di euro, superando già nel 2022 la Francia, mercato che oggi vale circa 62,4 miliardi di euro.

L’analisi settoriale evidenzia che, nel 2023, l’Italia è il primo Paese dell’Unione Europea per esportazioni negli Stati Uniti nei settori con una elevata presenza di micro e piccola impresa (MPI) - food, moda, legno e mobili, prodotti in metallo, altre manifatture, tra cui gioielleria e occhialeria - con 7,2 miliardi di euro, davanti a Germania con 13,6 miliardi e Francia con 8,2 miliardi6. Questi dati contribuiscono, dunque, a fornire una idea sull’impatto che possono avere i dazi sull’economia italiana ed europea.

Già nel primo mandato (2017–2021) l’amministrazione Trump, aveva imposto dei dazi aggiuntivi ma che avevano ancora percentuali sostenibili attestandosi su un valore medio del 3%. I dazi imposti nel “Liberation Day” hanno tutt’altro valore e impatto, simile a una vera e propria guerra commerciale con i Paesi esteri, con rilevante effetto – tra gli altri – di creare estrema incertezza e imprevedibilità nella evoluzione degli scenari macro-economici e commerciali.

 

Mitigazione degli impatti dei dazi: spunti operativi

Pertanto, una prima verifica da effettuare è sicuramente la presenza di accordi di libero scambio (o FTA) in vigore tra gli Stati Uniti e i Paesi coinvolti nella supply chain. Gli FTA non eliminano l’impatto tariffario, perché la maggior parte dei dazi non ha avuto esenzioni né eccezioni. Saranno applicati in modo generalizzato una volta implementati. Ma se esiste un accordo di libero scambio attualmente in vigore, tale accordo limiterà i costi, prevedendo una tariffa base inferiore come punto di partenza. Ad esempio, l’Amministrazione Trump potrebbe imporre un dazio aggiuntivo sui prodotti provenienti dalla Corea del Sud, ma un accordo di libero scambio con quel Paese ne attenuerà l’impatto. I prodotti oggetto dell’accordo potrebbero beneficiare di un’aliquota daziaria pari a zero e, aggiungendo la tariffa del 25%, l’aumento del dazio è del 25%. Tuttavia, se il prodotto sottostante aveva un’aliquota daziaria del 10% senza l’accordo di libero scambio, aggiungendo la tariffa del 25%, le aziende si troveranno a dover pagare un’aliquota daziaria del 35%. Quel risparmio del 10% può davvero essere significativo per le aziende di tutte le dimensioni; quindi, è più che mai fondamentale che le aziende analizzino la fonte di origine dei prodotti nelle loro catene di approvvigionamento14.
In aggiunta alla verifica della presenza di eventuali FTA, la seconda attività da compiersi è quella di classificare le merci secondo i codici di importazione adottati dalle dogane americane. A tal fine, è necessario fare riferimento alla Harmonized Tariff Schedule (HTS), tabella che classifica le merci da importare in USA in base al codice doganale americano. L’HTS fornisce l’importo dei dazi da applicarsi ai singoli prodotti15.

Un ultimo aspetto da valutare nelle operazioni di importazione in USA è l’utilizzo di Free Trade Zone (FTZ), ovvero le c.d. zone franche16. Il Foreign Trade Zones Act è amministrato attraverso 2 serie di regolamenti, i regolamenti FTZ (15 CFR Part 400) e i regolamenti CBP (19 CFR Part146). Le zone franche sono aree degli Stati Uniti d’America in cui i beni importati non scontano dazi all’importazione fino a quando non sono immessi nel territorio americano. Inoltre, i beni “stoccati” nelle zone franche non scontano i dazi se sono esportati al di fuori degli Stati Uniti d’America. Queste opzioni, da approfondire quanto a requisiti, modalità e quantità di merci che possono essere depositate in zone franche, consentono eventualmente di differire il pagamento dei dazi migliorando quindi i flussi di cassa dell’azienda oppure eventualmente azzerare l’impatto dei nuovi dazi in caso di beni riesportati. Se, ad esempio, si ha a che fare con un distributore americano che ri-esporta parte dei beni che acquista infragruppo, l’opzione delle Free Trade Zone può essere valutata in quanto consente di non pagare i dazi su parte della merce acquistata limitando quindi l’impatto delle nuove tariffe.

Tali valutazioni, vanno eseguite anche nel caso di flussi di importazione di segno opposto, i.e. dagli Stati Uniti nella UE. Ad esempio, occorre:
− controllare preventivamente su quali prodotti effettivamente vi è la presenza di dazio maggiore, in base ai codici di prodotto importati dagli USA; e
− verificare la presenza di Accordi di Libero Scambio tra l’UE e Paesi terzi coinvolti nel tragitto delle merci e stabilire se le lavorazioni effettuate in suddetti Paesi sono sufficienti per determinare l’origine preferenziale della merce (secondo quanto stabilito dall’Accordo).

Da ultimo, in aggiunta agli strumenti fin qui brevemente passati in rassegna che sono a disposizione delle singole società operanti sul libero mercato, giova ricordare che i gruppi multinazionali hanno potenzialmente a disposizione una ulteriore opportunità: ovvero, la possibilità di ridisegnare la propria catena del valore (value chain), procedendo – ad esempio – allo spostamento delle operazioni di produzione verso Paesi che vedono applicarsi dazi inferiori (all’atto dell’importazione della merce negli USA) rispetto a quelli in cui si trovano attualmente le consociate produttive del gruppo.

Tuttavia, per quanto i gruppi multinazionali – specialmente quelli molto integrati “da monte a valle”
– possano avere a disposizioni risorse di ogni genere che società indipendenti solitamente non hanno, resta comunque il fatto che tali progetti di business restructuring richiedono:
− solide e accurate analisi di partenza affinché le valutazioni di convenienza e la definizione delle opzioni realisticamente disponibili siano le più corrette e fondate possibili: le variabili da mettere a sistema sono le più variegate e quindi errori di impostazione e dati errati condurranno inevitabilmente a identificare soluzioni non pertinenti;
− un approccio multi-country, con la necessità di approfondimenti in merito alle disposizioni di natura contabile, civilistica, legale, giuslavoristica e fiscale dei Paesi che saranno coinvolti nella migrazione di complessi produttivi da una zona ad un’altra;
− una visione di medio-lungo periodo in chiave strategica, poiché le ristrutturazioni in parola – alla luce delle risorse e dei costi che comportano – rappresentano un vero e proprio evento straordinario che non può certo avere luogo al primo (per quanto sconvolgente) turbamento del mercato; per tale motivo, nei paragrafi appena sopra, si identificava la flessibilità come una delle caratteristiche pregnanti dei modelli operativi special modo di quelle realtà che si muovono nell’arena globale;
− semplicemente, tempo per essere correttamente disegnati e implementati: spostare – ad esempio – la produzione da una consociata a un’altra, da un Paese a un altro, modificare la value chain e la conseguente caratterizzazione funzionale e rischio delle entità coinvolte, mette in moto un processo lungo e per questo complesso, che potrà verisimilmente richiedere anche una o più fasi intermedie di avvicinamento alla conformazione finale. Di conseguenza, non è sicuramente consigliabile agire sull’onda emotiva e in una visione di breve periodo per tamponare una esigenza contingente.
A ben vedere, infine, tali 4 elementi essenziali dei progetti di business restructuring tipici dei gruppi multinazionali servono altresì come bussola per le società c.d. stand alone. Anzi, per esse un tale approccio potrebbe rivelarsi una vera e propria necessità: più sono limitate – per certi versi – le risorse a disposizione, più efficace e personalizzata dovrà essere l’attività di progettazione e implementazione della strategia aziendale.

Per leggere l'articolo completo, scarica il documento allegato:

Il rispetto della Vostra privacy è la nostra priorità

Utilizziamo i cookie per assicurarVi la migliore esperienza nel nostro sito. Accettate e continuate per prestare il consenso all’uso di tutti i cookie. Per saperne di più o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi cliccare qui. Potrai consultare le nostre Privacy Policy e Cookie Policy aggiornate in qualsiasi momento.